La sensazione di non essere completamente “presenti” nella propria vita, di vedere il mondo come se fosse un sogno o una realtà distante, è un’esperienza che molti vivono senza sapere come interpretarla. Callum, un giovane di 18 anni, mi racconta di come si senta intrappolato in una realtà che non riesce a comprendere appieno: “Sembra tutto un sogno, ma so che non lo è… o forse sì. Non so più cosa pensare”. Questo tipo di descrizione è tipica di chi soffre di disturbo da depersonalizzazione, una condizione che colpisce il senso di sé e la percezione della realtà.
Il disturbo da depersonalizzazione è caratterizzato da una sensazione di distacco dalla propria identità, dove la persona si sente come se fosse un osservatore esterno della propria vita. Questo distacco si manifesta con esperienze di derealizzazione, cioè la percezione che il mondo circostante non sia reale, e con la depersonalizzazione, che riguarda la sensazione che il corpo o i pensieri non appartengano più a chi li vive. Le persone che soffrono di questo disturbo descrivono frequentemente di sentirsi come se fossero dietro un vetro, intrappolate in una bolla, o di percepire il mondo in modo lontano, come se stessero guardando un film.
Questi sintomi, seppur molto comuni durante periodi di forte stress, diventano patologici quando persistono e interferiscono con la qualità della vita quotidiana. La confusione che ne deriva è spesso accompagnata da preoccupazioni per la salute mentale, con molti pazienti che si sottopongono a esami medici, come le risonanze magnetiche cerebrali, per escludere cause fisiche come i tumori. Alcuni, inoltre, collegano l’inizio del disturbo a esperienze di consumo di sostanze, come nel caso di chi ha avuto un “brutto viaggio” con la cannabis e ha avuto difficoltà a tornare alla realtà.
Uno degli ostacoli principali nel trattamento del disturbo da depersonalizzazione è la difficoltà di riconoscere il disturbo stesso. Spesso, le persone che ne soffrono non vengono comprese o vengono erroneamente diagnosticate con altri disturbi, come ansia o depressione. Questo fenomeno è dovuto principalmente alla mancanza di formazione adeguata tra i professionisti della salute mentale. Infatti, il disturbo da depersonalizzazione non è una condizione facilmente diagnosticabile e richiede una conoscenza approfondita delle dissociazioni psichiche.
Nel Regno Unito, per esempio, è stato osservato che ci vogliono mediamente da 8 a 12 anni per ottenere una diagnosi corretta. Durante questo periodo, i pazienti potrebbero essere trattati per altri disturbi senza alcun miglioramento, mentre altri potrebbero sentirsi ignorati o non compresi. La mancanza di consapevolezza sul disturbo rende difficile per molti trovare un supporto adeguato, portandoli talvolta a rinunciare a cercare aiuto. Tuttavia, l’aumento delle conversazioni sui social media e la crescente consapevolezza in campo scientifico stanno contribuendo a migliorare la situazione.
Organizzazioni come Unreal, una charity del Regno Unito dedicata al disturbo da depersonalizzazione, hanno visto un incremento delle richieste di formazione per i professionisti della salute mentale, segno di un cambiamento nella consapevolezza riguardo a questa condizione. Inoltre, gli sforzi per migliorare le terapie psicologiche, sviluppando approcci su misura, sono in continua evoluzione.
Guardando Callum, che si trova seduto nella poltrona del mio studio con il viso abbattuto, comprendo profondamente la sua sensazione di essere intrappolato in un mondo che non riesce a comprendere. Ma, al contempo, sono fiducioso che, con il giusto supporto e la diagnosi adeguata, le sue prospettive possano migliorare notevolmente. La depersonalizzazione, sebbene sia un’esperienza inquietante e difficile da affrontare, è trattabile. La chiave risiede nel riconoscimento precoce del disturbo e nell’offerta di trattamenti specifici che possano aiutare le persone a ritrovare un senso di sé e una connessione più profonda con la realtà che li circonda.
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